Genovesi, estimatori di cose scomparse, dai Bianchetti al Bianco di Coronata, dalle Ancioe belle donne alle Bocche di Rosa, da Ravecca street a Madre di Dio, le Pasqualine mangiate a Natale, i Caruggi chiamati suq anche dagli scrittori più genovesi e definiti casbah da chi genovese non è.
Genovesi all’inseguimento di una gloria calcistica che ormai appartiene ai nonni, permeati di un dialetto antico che dicono di capire ma che non parlano più.
Vecchi frequentatori di Sottoripa e di vicoli che hanno lo stesso nome di un tempo ma non più il sapore e i richiami dello Statuto ormai si sentono solo nelle canzoni d’autore. Un tempo, per sapere dove fosse il sud si guardava verso il mare, ora ci si orienta con le parabole televisive.
Questo non è un rimpianto ma un progetto, uno sguardo verso una parte di noi che è stata costruita con pazienza, con i pantaloni corti anche d’inverno, le maglie di lana delle nonne, le ginocchia sbucciate in mille cadute nelle creuze che dalla città vecchia portano ai monti.
E’ un riappropriarsi di ciò che siamo senza forse saperlo più, è una voglia silenziosa di essere e far vedere come siamo diventati grazie alla tenacia e all’amore di altri.